Pensieri dal fronte

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A colloquio con il Dr. Azzaretto, medico d’urgenza di CVL ed ex paracadutista della Brigata Folgore

Il dr. Massimo Azzaretto ci racconta il percorso che lo ha portato a specializzarsi in chirurgia generale e, successivamente, a diventare un medico d’urgenza attivo in numerosi teatri di guerra. La sua esperienza, maturata sul campo durante le missioni in Afghanistan, nei Balcani e in altri scenari, si intreccia con una forte tradizione militare e ci offre uno sguardo su come le competenze acquisite in scenari di guerra possano trasformarsi in un valore aggiunto anche nel lavoro civile. Le sue riflessioni sul rapporto con la morte, il confronto con il dolore e l’importanza di elaborare le emozioni evidenziano come, anche nelle situazioni più tragiche, si possa crescere come professionisti e come esseri umani.

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Massimo, cosa ti ha spinto a scegliere la medicina d’urgenza e a entrare nella Brigata Paracadutisti Folgore, operando in vari scenari di guerra?
Inizialmente il mio sogno era diventare chirurgo, ed in effetti sono diventato specialista in chirurgia generale. Al termine degli studi universitari mi sono cimentato in una tesi di chirurgia sperimentale; all’epoca ero interno in chirurgia dei trapianti ed una delle frontiere era quella degli xenotrapianti (ovvero l’utilizzo di organi di specie diverse nel trapianto umano) ed il mio lavoro, che analizzava i meccanismi di rigetto immunitario tra specie diverse come maiale ed uomo, si è rivelato premonitore – infatti a distanza di trent’anni negli Stati Uniti sono stati realizzati i primi trapianti utilizzando appunto organi di maiale.
Negli anni della mia specializzazione, il contesto italiano prevedeva ancora la leva militare obbligatoria per cui all’età di 28 anni partii come Ufficiale medico, prima di complemento e successivamente di carriera. Fu in quel periodo che presi coscienza che oltre alla chirurgia generale dovevo acquisire ulteriori competenze, in particolare nel campo della medicina d’urgenza. Iniziai così a frequentare corsi specifici, preparandomi ad affrontare emergenze sia in esercitazioni che in missioni reali. Questa scelta mi permise di unire la mia passione per la medicina alla voglia di mettermi in gioco in situazioni estreme, fino a decidere di “mettere le ali” e diventare paracadutista: il brevetto è un segno distintivo di appartenenza e di uno spirito di corpo molto sentito all’interno della Brigata Folgore.
Ed è questo spirito di appartenenza che pervade anche l’ultima attività che mi mantiene legato all’Italia: il Team Folgore Paracadutisti che fa parte della Protezione Civile dal 2018. È presente in 7 regioni e opera con squadre di conoscitori d’area per ricognizione e mappare aree di possibile intervento in caso di calamità; il team ha operato durante il Covid ed è costantemente impiegato in attività di formazione anche in ambito sanitario.

Nella tua famiglia di origine c’era qualche tradizione che ti ha orientato verso questa scelta?
Il mondo militare mi ha sempre affascinato anche per i trascorsi familiari: mio nonno è stato un maresciallo dei carabinieri durante la Seconda Guerra Mondiale e mio padre un finanziere. Viceversa non provengo da una dinastia medica. Il mio primo approccio diretto con il mondo militare è avvenuto con la leva, esperienza che mi ha poi condotto a intraprendere un percorso professionale che è iniziato presso il Policlinico Militare di Roma. Quando si è arrivati alle assegnazioni nei vari reparti, ho scelto di unirmi ai paracadutisti, soprattutto per l’opportunità di partecipare a missioni all’estero. La tradizione e la gloriosa storia della Brigata Paracadutisti Folgore – che vive in particolare nel ricordo della battaglia di El Alamein – hanno rappresentato per me una fonte di ispirazione: un ambiente in cui, indipendentemente dal grado, le prove per diventare paracadutista erano le stesse per tutti ed il lavoro di squadra era elemento fondamentale per la riuscita dell’attività del reparto.

Ci puoi raccontare qualche episodio particolarmente significativo delle tue missioni?
Ne ho vissuti tanti. La mia unità in missione operava in maniera articolata e complessa, ma il mio compito è sempre stato quello di assistenza sanitaria. In Afghanistan uno dei compiti era il recupero e trasporto dei feriti mediante elicotteri, mentre nei Balcani eravamo chiamati anche a valutare le condizioni dei civili, instaurando così un rapporto più stretto con la popolazione locale. Uno degli episodi che ricordo con grande emozione avvenne in Bosnia: una bambina serba, affetta da idrocefalo e in condizioni critiche a causa dell’impossibilità di essere trattata nel luogo abituale, per i bombardamenti in corso in Serbia, fu recuperata dal nostro team. La tenacia e la cura con cui l’abbiamo assistita durante una lunga notte, per poi trasportarla in Italia, ed il suo rientro in salute dopo qualche settimana sono ricordi che mi riempiono di orgoglio e di gratitudine per questa vita salvata.
In Afghanistan, il rapporto con i soldati americani e con i piloti degli elicotteri fu memorabile. Ricordo in particolare un pilota, soprannominato “Novanta gradi” per il suo peculiare stile di volo: inclinava l’elicottero a 90° per sentirsi più sicuro e destreggiarsi con agilità tra le strette montagne afgane, dove volare basso ed in maniera non convenzionale era spesso l’unica via per evitare di diventare un facile bersaglio. Naturalmente, non tutte le missioni sono state fortunate: mi sono trovato in scenari di combattimento in cui l’intervento doveva essere rapido, sia durante il conflitto attivo che subito dopo, in situazioni caratterizzate da ferite gravi non solo tra i soldati, ma anche tra i civili.

Come cambia il lavoro di un medico d’urgenza tra scenari di guerra e contesti civili? In che modo l’esperienza maturata ha influenzato il tuo approccio e il tuo metodo di lavoro una volta tornato a operare in ambito civile?
La differenza fondamentale risiede nella valutazione del rischio, soprattutto il cosiddetto rischio evolutivo. Nei contesti civili, come un incidente stradale o un incendio, il rischio è strettamente legato alla specificità dell’evento – ad esempio, la presenza di gas, fuoco o crolli strutturali. In ambienti di guerra, invece, il pericolo assume dimensioni ben diverse e spesso non immediatamente evidenti: ci troviamo a dover affrontare ordigni improvvisati, possibili agguati e minacce costanti. Ricordo bene come in Afghanistan e in Bosnia le mine fossero disseminate ovunque, aumentando esponenzialmente il livello di rischio. Intervenire in tali contesti significa essere consapevoli di dover gestire ogni decisione con una prudenza e un’attenzione al pericolo assolutamente superiore rispetto a quella richiesta in situazioni civili.
L’esperienza sul campo militare mi ha insegnato l’importanza del lavoro in squadra e la consapevolezza che, in un gruppo altamente specializzato, ognuno ha un compito fondamentale. Sapere che la propria sicurezza – e quella degli altri – è legata al rispetto dei ruoli e delle competenze mi ha preparato ad affidarmi agli altri quando necessario. In Croce Verde Lugano, ho notato subito una organizzazione molto più professionalizzata rispetto a quella del 118 italiano. Qui, ogni figura è riconosciuta per le proprie competenze e responsabilità, permettendomi di operare con la stessa freddezza e precisione sviluppata in ambito militare. Questa capacità di mantenere il controllo, anche quando il cuore batte a mille, trasmette sicurezza a chi lavora al mio fianco e contribuisce a garantire interventi efficaci in situazioni di elevato rischio.

Quali sono le principali differenze tra lavorare come medico d’urgenza in Italia e qui in Svizzera da Croce Verde Lugano?
Dopo aver lasciato l’esercito ho lavorato per un anno e mezzo come chirurgo in Veneto, per poi trasferirmi a Como dove, per i primi tre anni, ho prestato servizio nel 118. La differenza iniziale era soprattutto organizzativa: in Italia, gli equipaggi delle ambulanze sono prevalentemente composti da soccorritori volontari che acquisiscono la qualifica dopo 120 ore di corso e 60 di affiancamento in ambulanza, mentre in Svizzera gli equipaggi sono formati da soccorritori diplomati che hanno seguito un percorso formativo specifico di tre anni. Anche le risorse a disposizione e l’attivazione delle figure specialistiche – come gli infermieri specializzati – sono maggiormente orientate alle reali necessità del paziente. Questi aspetti si traducono in un livello di prestazione e di cure decisamente più elevato, rendendo il servizio preospedaliero svizzero particolarmente efficace.

“La guerra fa schifo”, diceva Gino Strada. Quali riflessioni ti suscita questa affermazione?
Condivido profondamente questo sentimento. Ogni militare che va in missione porta con sé la consapevolezza che, andando in campo, potrebbe non far ritorno, ed è una realtà che pesa sul cuore. Inoltre, non esistono guerre giuste in senso assoluto: la percezione di giustizia varia a seconda della prospettiva e, spesso, la storia è raccontata in maniera parziale dai vincitori. Ad esempio, sono emerse solo dopo decenni, verità scomode come l’esistenza di campi di concentramento per cittadini di origine  giapponese, tedesca ed italiana negli Stati Uniti, e il fatto che persone costrette a tali condizioni abbiano visto comunque i loro figli combattere per le forze armate statunitensi. Personalmente, ritengo che l’esercito italiano abbia operato in maniera prevalentemente orientata al peacekeeping, come si è visto nei Balcani, mentre in altre missioni – ad esempio durante alcuni periodi in Afghanistan – le dinamiche e le regole d’ingaggio, soprattutto di fronte a minacce come quella rappresentata dai talebani, erano decisamente diverse. La guerra, dunque, rimane un’esperienza tremendamente tragica e complessa, che non può essere ridotta a semplici categorie di “giusta” o “ingiusta”.

Durante la tua esperienza in questi scenari, hai appreso tecniche o protocolli di intervento che in ambito civile sono meno comuni o addirittura inesistenti?
Negli anni della mia attività militare ho acquisito competenze specifiche che si sono rivelate fondamentali anche in ambito civile. Ad esempio, all’inizio della mia attività come chirurgo negli ospedali ed anche nel soccorso preospedaliero non si aveva molta esperienza nella gestione delle ferite da arma da fuoco; tuttavia, dopo la battaglia di Mogadiscio, gli americani svilupparono corsi tattici per soccorrere i feriti sul campo, riconoscendo che molte vite potevano essere salvate con le tecniche giuste. Ho avuto la fortuna di partecipare a uno di questi corsi e, successivamente, di diventare istruttore. Prima di partire per l’Afghanistan, il comandante di Brigata mi affidò il compito di formare altri soldati in queste tecniche, contribuendo così a gestire in maniera ottimale i feriti occorsi in alcune operazioni. In ambito civile, dopo eventi tragici come gli attentati a Charlie Hebdo, al Bataclan e alla maratona di Boston, la necessità di adottare queste metodologie si è fatta sentire con forza. Proprio qui, in Svizzera, la Federazione Cantonale Ambulanze ha riproposto questi corsi, e io ho potuto condividere parte della mia esperienza militare, restituendo al sistema civile strumenti preziosi per gestire questo particolare tipo di situazioni di emergenza.

In che modo queste esperienze hanno cambiato la tua percezione di te stesso e del tuo ruolo nel mondo della medicina d’urgenza?
Prima di affrontare scenari così estremi avevo una visione ben definita di me stesso come medico e come uomo, ma queste esperienze mi hanno messo sotto stress non solo a livello operativo, ma anche sul piano umano. Ho imparato a relazionarmi in maniera diversa con la popolazione e con i colleghi, vivendo in prima persona il peso degli eventi luttuosi. Ricordo che ho lasciato l’esercito nel dicembre del 2003, un mese dopo l’attentato di Nassiriya: quell’evento mi fece esitare e ripensare la mia scelta di lasciare l’esercito, un vero scontro fra cuore e ragione. A differenza di quanto presente nell’immaginario collettivo, il militare non è una persona chiusa e priva di sentimenti, ma anzi, le emozioni vengono vissute in modo diverso, amplificate dalla convivenza in ambienti confinati e con una maggiore consapevolezza del fatto che la vita può spegnersi in un battito di ciglia. Questo ha arricchito non solo la mia professionalità, ma anche la mia umanità, aiutandomi a concentrarmi nei momenti in cui è veramente indispensabile ed a godermi la vita quando necessario.

La morte è qualcosa con cui la maggior parte delle persone entra in contatto solo raramente, mentre nel tuo lavoro è stata una presenza costante. In che modo questa esposizione prolungata ha cambiato il tuo modo di vivere e di vedere la vita? 
Il mio rapporto con la morte è cambiato radicalmente per via delle esperienze vissute. Sono cresciuto in una famiglia in cui la morte non era un tabù: l’ho affrontata fin da piccolo, con la perdita di mio nonno a cinque anni e un grave incidente che coinvolse mio padre, allora autiere, quando avevo sette anni. Queste esperienze mi hanno posto domande profonde, soprattutto perché cresciuto in un contesto cattolico, dove il Padreterno viene rappresentato come un essere buono. Tuttavia, quando si vive il dramma e l’imprevedibilità della vita, ci si chiede perché accadano certe cose e dove fosse Dio in quel momento. La morte, l’unica certezza della vita, mi colpisce in modo diverso a seconda delle circostanze e dell’età delle persone che se ne vanno. Un paziente che muore in ospedale a seguito di un incidente stradale o di un infarto viene accolto in un contesto di rassegnazione e di lutto personale; in guerra, invece, la scoperta di una fossa comune con trenta cadaveri di età diverse accentua l’orrore e l’aberrazione della violenza umana. Ricordo un episodio a Sarajevo: in un quartiere un cecchino aveva ucciso almeno 50 persone sparando da un punto strategico – una stanza dell’ex ospedale pediatrico resa accessibile da un foro causato da un mortaio. Sapere che quella persona era rimasta lì per settimane, ripetendo quell’atto mostruoso con determinata freddezza, fa nascere in te una profonda riflessione sul significato dell’odio e della violenza.

Ci si abitua mai alla sofferenza? Ci sono momenti in cui il peso emotivo di certe esperienze torna a farsi sentire, anche a distanza di anni?
No, non ci si abitua mai, ma si sviluppano meccanismi di resilienza per resistere, e affrontare il dolore ed andare avanti con il proprio compito. Ricordo che, da giovane medico appena laureato, seguivo i trapianti pediatrici e, al terzo caso di un bambino deceduto, ho avuto una crisi emotiva così forte da pensare di abbandonare quell’ambito. Col tempo ho imparato a riconoscere questi momenti e a trovare dentro di me dei meccanismi di difesa, senza però chiudermi completamente. È fondamentale poter condividere ed elaborare le emozioni: in Croce Verde, ad esempio, il Dr. Marco Schiavi specialista in psichiatria, svolge un ruolo importante dopo gli eventi di maggior impatto emotivo, aiutando il team come “confessore” e guida nei debriefing. Tenere dentro certi eventi può essere deleterio, e trovare un modo per esternarli è essenziale per la salute psicologica di chi opera in situazioni di estrema pressione.

Consiglieresti a un giovane medico che sta decidendo del suo futuro di fare le tue stesse esperienze?
Operare in scenari di guerra o in contesti a basse risorse, ad esempio con organizzazioni come Emergency o Save the Children, ritengo possa essere un’esperienza estremamente formativa. Tuttavia, è fondamentale affrontarla in maniera strutturata: non si può partire all’avventura, perché i rischi – sia personali che per chi ti sta accanto – sono elevati. La stessa OMS ha rivisto le modalità di intervento dopo il terremoto di Haiti, quando numerosi volontari, pur con le migliori intenzioni, hanno commesso errori clamorosi, realizzando interventi di amputazione di arti, che non avevano mai eseguito prima, creando danni irreparabili. Quindi, chiunque voglia intraprendere questo percorso, è indispensabile che abbia solide conoscenze, una preparazione adeguata ed una buona capacità di adattamento.

Massimo, grazie per queste tue riflessioni, siamo contenti di averti in Croce Verde Lugano!

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